I
gelsi sono dei frutti dolcissimi, dolci come caramelle.
Ve
ne sono di due tipi, bianchi e rossi.
Un
tempo, quando ero piccola, era facile trovarli sui banchi del
fruttivendolo, ma poi, un po’ alla volta, sono spariti e di
essi rimane solo un nostalgico ricordo.
Con
l’arrivo della primavera, quando forte è il desiderio
di godersi quel primo tiepido sole di stagione e scrollarsi di
dosso freddo e umidità, i miei genitori avevano l’abitudine
di portarci in visita dallo zio e dai cugini che abitavano in un
paesino in collina.
Il
centro del paese era costituito dal municipio, dalla farmacia ed
un minuscolo ospedale scarsamente attrezzato.
Il
resto consisteva di un gruppo di case, ognuna col proprio
appezzamento di terreno, che s’inerpicavano sulla collina.
Di notte pareva di vedere un presepe con le lucine accese e il
cielo stellato che lo avvolgeva silenzioso.
Quando
si arrivava, lo zio organizzava un pranzo di benvenuto degno di un
re.
Tutto
ciò che si mangiava era allevato e coltivato da lui.
C’era
la stalla con le mucche e un toro, l’aia con le oche e le
galline, un porcile con maiali grassi grassi, un fiume dove lui
stesso pescava pesci saporitissimi e, per finire, tanti alberi da
frutta ed un orto fornitissimo.
Mi
ricordo le donne di casa indaffarate ai fornelli, per preparare
tutto un ben di Dio, l’aria che sapeva di buono e inebriava
e la gioia dello stare tutti assieme.
Il
tavolo per il pranzo veniva allestito all’aperto, sotto un
albero di gelsi rossi, per l’appunto.
Quell’albero
aveva una chioma enorme e con i suoi rami, da cui pendevano i
gelsi, ci riparava le teste dal sole di mezzogiorno.
La
cosa più divertente però era che ogni tanto qualche
gelso si staccava dall’albero, finendo sulla tovaglia o su
qualche malcapitato commensale.
Chiazze
rosso-sangue macchiavano tutto senza pietà e di fronte a
tale scempio più che alla rabbia ci si abbandonava allo
scoppio irrefrenabile delle risate, anche perché le nostre
labbra, macchiate di rosso, parevano quelle dei clown di un circo.
Che
spasso, ragazzi! Solo nostra madre storceva il muso, pensando alla
fatica che avrebbe fatto per far sparire quelle macchie dalle
nostre camicie e quella smorfia le donava un’aria ancora più
ridicola.
Ad
un certo punto del pranzo, quando le nostre pance di bambini non
riuscivano a contenere neanche un gelso, lasciavamo il resto dei
commensali a chiacchierare e preceduti da nostro cugino
Pasqualino, che era più grande di noi e di casa, andavamo a
correre nei prati fin giù al fiume dalle acque verdi come
smeraldo.
Lungo
il corso brevi cascate ossigenavano l’aria e sdraiati sul
prato con gli occhi chiusi si potevano sentire le voci delle fate
che vivevano nel boschetto lì d’appresso, ci diceva
nostro cugino.
Noi
ci credevamo e quando chiudevamo gli occhi, lui ci spruzzava con
l’acqua del fiume e alle nostre proteste si difendeva,
dicendo che in realtà non era stato lui, ma quelle
dispettose creature, sempre pronte a prendersi gioco dei bambini
di città.
Il
tempo è trascorso da allora, tanto tempo.
Ora
sui miei capelli è caduto qualche fiocco di neve e non ho
più notizie di quell’albero di gelsi rossi né
delle fate del bosco sul fiume.
Qualche
volta, però, mi pare di udire le loro risate, quando
spruzzano l’acqua ai bimbi nei prati, ai bimbi che sorridono
al primo sole di primavera.
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